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La ricerca della felicità, seconda parte. Rapporto con il presente.

Cosa vuol dire creare le condizioni per essere felici? E quali sono le condizioni perché si generi in noi uno stato di felicità? 


Paul Watzlawick, il più famoso psicologo della Scuola di Palo Alto nel suo divertente bestseller intitolato “Istruzioni per rendersi infelici” scriveva:

“È giunta l’ora di farla finita con la favola millenaria secondo cui felicità, beatitudine  e serenità sono mete desiderabili della vita… Parliamoci chiaro: cosa e dove saremmo senza la nostra infelicità? Essa ci è, nel vero senso della parola, dolorosamente necessaria.”

Per quanto possa apparire ironica e paradossale, questa affermazione contiene una verità profonda. Quante persone conosciamo affezionate alla loro infelicità più che al cane o al gatto? L’infelicità si genera e si sviluppa a causa di specifici meccanismi e abitudini mentali, piuttosto diffusi e resistenti nella nostra cultura. Sensi di colpa o di inadeguatezza, rimorsi, rimpianti, tormenti, tutti grandi e persistenti generatori di infelicità, vengono concepiti e tenuti in vita nel mondo virtuale della nostra mente, anche se poi producono effetti disastrosi nel mondo reale. La maggior parte delle cause del nostro malessere non riguardano tanto gli avvenimenti della vita, quanto il nostro modo di reagire ad essi. Insomma, molto più spesso di quanto si pensi, ciò che si frappone fra noi e la felicità siamo proprio noi stessi e il nostro modo di vedere le cose. 
Conoscere i meccanismi cognitivi e le abitudini mentali che generano sofferenza, e provare a trasformarli, non garantisce di per sé la felicità ma ne è una pre-condizione necessaria. Ecco perché abbiamo pensato di elencarvene alcuni. 

Uno dei meccanismi principali riguarda il nostro rapporto con il tempo. 
Possiamo fare del passato una fonte inesauribile di sofferenza pensando, continuamente, ad una particolare stagione della vita o storia d’amore, come all’età dell’oro, irrimediabilmente perduta.
Un pensiero reso possibile grazie ad una distorsione della realtà, che lascia filtrare nel ricordo solo il buono e il bello di quel periodo o di quell'amore, cancellando tutto il resto. Oppure possiamo tornare ripetutamente con il pensiero ad episodi dolorosi del passato, ri-attualizzando continuamente la sofferenza. In tutti e due i casi ci stiamo procurando, nel presente, una dose di infelicità non giustificata da una causa reale attuale. Si tratta proprio di un’infelicità auto-prodotta. 
Di fronte ad eventi dolorosi è normale che si verifichi un abbassamento temporaneo dell’umore. Ma generalmente, dopo un certo tempo, che ovviamente dipende dalla gravità dell’evento e da altre circostanze su cui non è il caso qui di soffermarsi, l’umore torna a quel livello di felicità costituzionale di cui abbiamo parlato nella prima puntata. Il dolore, la tristezza, l’amarezza, la rabbia, come tutte le emozioni, non persistono immutate nel tempo ma evolvono, si trasformano. E’ la nostra mente, sono i nostri pensieri che le trattengono e le cronicizzano.

Per loro natura le emozioni nel tempo tendono a stemperarsi, a modificarsi, a dissolversi, a meno che noi non le ri-attualizziamo rievocando ciò che le ha provocate o anticipando ciò che potrebbe provocarle.  Un altro modo in cui auto-generiamo infelicità è proprio relativo all'anticipazione del futuro, come nutrire paure per pericoli immaginari. 

“La mia vita è stata piena di terribili disgrazie, la maggior parte delle quali
non si è mai verificata”. 

Dobbiamo a Montaigne questo modo folgorante di descrivere quel deleterio processo mentale che consiste nell'indugiare nelle proprie paure, fino a costruire scenari virtuali drammatici, ai quali finiamo per credere. Una maniera per arginare questo genere di meccanismi perversi è quella di impararead abitare il più possibile il presente Se impariamo a so-stare nel presente, evitiamo che la nostra mente lavori sul passato e sul futuro in modo pernicioso.

Quando abitiamo il presente, come dimostrano gli studi sulla mindfulness, mettiamo il nostro cervello nella condizione ideale per secernere le sostanze del benessere e dell’auto-guarigione. Essere presenti e connessi a sé stessi è il più potente “principio attivo” terapeutico e generatore di felicità che possiamo produrre spontaneamente. Decisamente più economico ed ecologico che il ricorso a farmaci ansiolitici o antidepressivi.  Questa volta, in attesa della prossima puntata, vi propongo un “compito a casa”.

Provate per qualche giorno ad osservare, e magari annotare, gli stati d’animo che generano in voi i pensieri rivolti al passato o al futuro. Del resto ne parleremo la prossima volta, a presto.

(L'articolo fa parte della serie di articoli chiamata "La ricerca della felicità" scritto con la Prof.ssa Teresa Giannelli per l'Associazione di promozione sociale Clelia, di Roma)

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